Punizioni e condanne in epoca romana

Ad Ercolano c’è un’iscrizione su un pilastro in cui si indica obbliga a non lasciare rifiuti e le sanzioni applicate a chi non rispetta il divieto. Una domanda che ci viene posta spesso anche durante i tour a Pompei è “quali erano le punizioni per chi commetteva dei crimini?”.

Oltre al pagamento di sanzioni più o meno elevate a seconda del crimine e alla lex talionis, che consentiva al soggetto offeso di infliggere lo stesso danno ricevuto, vi erano reati gravi che erano puniti con la pena di morte. I romani misero appunto molteplici modi per eseguire condanne a morte che variavano a seconda del reato, del condannato e della vittima. Lo scopo della punizione era riparare ad un torto subito da un dio o da un’autorità familiare o politica, consentire la vendetta a chi ha subito l’offesa e mostrare a tutti il destino di coloro che trasgrediscono la legge. Spesso le condanne assumono connotati di rituali, altre diventano un momento di spettacolo da mettere in scena all’anfiteatro.

Tra le punizioni più crudeli vi è quella riservata alle vestali, sacerdotesse di Vesta, o alle donne adultere o che trasgredivano l’obbligo di non bere vino. Queste venivano murante vive in una stanza sotterranea, con poco cibo ed un letto. La stanza ha un valore simbolico, rimandando allo scopo della donna, a quello che era considerato il suo ambiente naturale. L’adulterio era considerato grave quanto bere vino in quanto le due cose determinano la perdita di controllo del corpo e delle inibizioni: lo stato romano è responsabile anche della crescita demografica che pretende di controllare attraverso il controllo delle abitudini femminili.

Agli amanti delle vestali e agli schiavi insubordinati era riservata la fustigazione, mentre per i crimini di stato si procedeva con la decapitazione e l’Albor infelix che consiste nel legare un uomo ad un albero con capo coperto e fustigarlo. La pratica del capo coperto ricorda l’usanza di coprire la vittima di un sacrificio divino.

La crocifissione fu ampliamente utilizzata per schiavi e stranieri: le vittime dovevano camminare in processione legato ad un asse orizzontale patibulum che veniva fissato su un asse verticale stipes e il condannato così immobilizzato veniva colpito per spezzarli le ossa o marchiato con ferri infuocati. La morte sopraggiunge per infarto, blocco respiratorio o emorragia.

Altro metodo molto usato nelle messe in scena dell’anfiteatro era la condanna damnatio ad bestias, diffusasi dal II sec a. C., e di lì a poco si inizieranno a costruire anfiteatri stabili. Spettacolarizzazione che si traduce in travestimenti, rappresentazioni di tragedie con assassini e morti crudeli, condanne al rogo dove il condannato vestiva la tunica molesta, una tunica imbevuta di pece e zolfo che alimentano le fiamme. Se la condanna derivava dall’incendio di un campo coltivato, diveniva un vero sacrificio a Cerere, Dea della fertilità.

Il carattere spettacolare di crocifissioni, condanne al rogo, decapitazioni e condanne ad bestias e la possibilità di eseguirle in luoghi che potevano accogliere molti spettatori fecero preferire questi metodi contro i cristiani. Le persecuzioni si fecero intense ed aggressive quando le conversioni iniziarono a riguardare anche i ceti aristocratici minando alla stabilità dello stato.

In ambito politico molto usata era la precipitazione o Salto della Rupe riservata ai traditori, disertori e doppiogiochisti. A Capri, in una delle sue ville che Tiberio fece realizzare sull’isola, vi è il Salto di Tiberio, ancora oggi visibile il luogo dove si racconta che l’imperatore si liberasse dei personaggi scomodi.

In ambito privato, una delle punizioni più diffuse era la lapidazione, dove la mano assassina è la stessa famiglia, mentre la più atroce era quella conosciuta come Poena cullei, dove il condannato con capo coperto da una pelle di lupo che allude alla ferocia dell’aguzzino, e con ai piedi zoccoli di legno che hanno lo scopo di isolare i flussi malefici, dopo essere stato percosso, veniva chiuso in un sacco con un animale vivo, scelto a seconda del significato che gli si voleva associare. Un cane è il simbolo di ferocia, il gallo di violenza, la scimmia simboleggia l’uomo mostruoso, mentre la vipera indica l’attacco del figlio verso sua madre.

Insomma, in quanto a fantasia non gli si può contestare nulla e sicuramente la cattiveria umana lascia sempre a bocca aperta, ma purtroppo non bisogna sorprendersi troppo. Ancora oggi ci sono stati che riconoscono la pena d morte, in alcuni forse è stata resa meno dolorosa o “più dignitosa”, ma se il risultato è lo stesso non si può parlare di dignità.